I giovani dell’acropoli di Paternò hanno diritto a sognare per non rassegnarsi al degrado

Bisogna ripartire dalle nuove generazioni per immaginare un futuro migliore.

Bisogna ripartire dalle nuove generazioni per immaginare un futuro migliore.

Bisogna ripartire dalle nuove generazioni per immaginare un futuro migliore.Sentire quella parte di città che spesso lamenta la mancanza di opportunità per lo svago e il tempo libero. Un fiume in piena che rischia di perdersi tra le anomalie della società contemporanea, privato della speranza e del futuro. Una generazione che occupa gli spazi, li rende iconici per poi mandarli in obsolescenza. Lontani dalle piazze formali, sostano negli slarghi e negli anfratti. Spesso utilizzando le penombre e le oscurità della notte. Ribelli e dissacranti, rifiutano le etichette e navigano nel web continuamente. Un popolo che vive la notte, il tramonto, spesso in compagnia di una bottiglia e una sigaretta.

Dentro questi anfratti urbani spesso solo per stare insieme, per guardarsi e per guardare altrove. Vestiti come per la festa ma privati della musica di sottofondo. Fluttuanti, rimbalzanti, senza una precisa logica funzionale, da un gruppo all’altro, da una strada all’altra, senza sosta, fino a ritrovare la via di casa, verso l’alba, scaglionati come quando devono entrare a scuola, al tempo del covid.

Oggi questi ragazzi frequentano le periferie, le marginalità, gli spazi dell’eterotopia. Ma sempre di più all’interno di quello spazio misterico che è l’acropoli di Paternò: dalle parti del santuario della Madonna della Consolazione, sotto il castello, dietro al convento di San Francesco e qualche volta persino al fiume. L’oscurità, l’esoterismo, il brivido della paura, la teatralità del cimitero e l’intimità dell’oscurità che nasconde una notte d’amore.

Ma dentro questi spazi, si nascondono – lo dicono le cronache nere di questi giorni – i venditori di morte, mangiafuoco, lucignolo, il gatto e la volpe, le streghe cattive. Dentro questi luoghi strisciano i “bravi” manzoniani, i furbetti del quartierino, i compagni di merenda e l’orco nero. Uno zoo di animali fantastici che brulica e striscia, s’insinua e contamina, avvelena l’aria e acceca la vista.

Sembra quasi un paradosso che uno dei luoghi più affascinanti della città rischia di diventare un covo, una tana, una discarica. Uno dei luoghi simbolo della storia di questa città, che rappresenta l’identità della comunità, che ospita processioni sacre, templi, chiese e antiche vestige e i nostri cari antenati, può diventare la porta dell’inferno.

Sui social, Sante Chinnici – farmacista di questa città – si chiede come mai i giovani della città di Noto sono impegnati nella realizzazione dell’infiorata come liturgia collettiva e invece, al contrario, la stessa generazione di ragazzi – in questa città – è impegnata a lasciare un cimitero di bottiglie vuote in ogni angolo che attraversa. Quante possibili risposte a questa domanda, tante, troppe, ma mai esaustive. La famiglia, la scuola, la TV, gli amici? Da cosa dipende?

Per questo abbiamo intervistato, in questi giorni, alcuni dei protagonisti; ragazzi che di giorno frequentano le scuole cittadine e che di notte sono gli abitanti dell’acropoli.

Li abbiamo sollecitati a spiegarci cosa li spinge a vivere alcuni luoghi e cosa renderebbe gli stessi luoghi, più vivibili e stiamo parliamo degli spazi funzionali a questa movida itinerante e improvvisata.

Tre cose sono emerse.

La prima è il senso di rassegnazione rispetto al degrado sociale e urbano, poi la necessità di attrezzare gli spazi con nuove funzioni e servizi e infine la mancanza di ascolto da parte di chi ha la responsabilità di governo o di chi esercita la politica in città.
Quest’ultima dimostra l’inconsistenza della partecipazione reale dei ragazzi alla vita collettiva e alle scelte che contano, sepolta da sigle, sindacati e insegne, che spesso rappresentano più se stessi che il sentire collettivo. Ascoltare è complicato e tradurre il sussurro degli ultimi in azione politica è la vera sfida a cui dobbiamo dare risposte. I ragazzi vogliono poter esprimere la loro idea. Senza sovrastrutture sindacali, senza filtri rappresentativi, direttamente a chi governa e credere che il loro pensiero sia preso in considerazione e non archiviato come “fatto”. Altra cosa è la rassegnazione, l’apatia, l’abitudine al vandalismo culturale e materiale. Ogni sogno s’infrange nella consapevolezza che tanto tutto è inutile, che alla fine qualcuno distruggerà e nulla cambierà. Questa è la vera malattia che divora i nostri giovani. “Che facciamo a fare un tappeto di fiori se poi qualcuno li distrugge”. La politica dovrebbe smentire questa ovvietà e incoraggiare i giovani a fare per sognare o sognare per fare.

I ragazzi, sulle strategie di rigenerazione dell’acropoli, hanno le idee più chiare di tanti soloni dell’urbanistica e dell’economia.

Bisogna ripartire dalle nuove generazioni per immaginare un futuro migliore.Gli edifici dell’acropoli, compreso i suoi gioielli più preziosi, da destinare a funzioni complesse e integrate. Pub, caffetterie e biblioteca, spazi per il commercio e la musica, cinema all’aperto ed eventi per la danza.

Riaprire le chiese, i monasteri per viverli tutta la giornata. Poter leggere, ascoltare musica, fare una ricerca e prendere una birra insieme fino a tarda sera. Scavare per fare emergere le antiche rovine della città, per riavviare l’economia e il turismo, usare il borgo come centro commerciale naturale e predisporre parcheggi e sistemi di risalita meccanica fino a tardi, per evitare troppe macchine. Ma anche cose semplici come le luci, la video sorveglianza e i cestini per i rifiuti, indispensabili per esercitate la civiltà. Idee chiare, pratiche e immediate.

I giovani vogliono riconquistare questo spazio ma desiderano essere ascoltati, desiderano opportunità per stare insieme, consapevoli che la partita si gioco sul piano dell’educazione collettiva. Crediamo nei giovani e nella semplicità del loro pensiero. Ritroviamo il senso della legalità – perduto – nei luoghi della nostra memoria; riappropriamoci dell’acropoli, accendiamo le sue luci.

Ascoltiamo la voce sincera di chi ha diritto a sognare. Perché se non fosse cosi, serve a poco dimenarsi in politica, non serve a nulla se poi il saldo dei flussi migratori di questa città è sempre negativo, con andamento esponenziale; rischiano di restare in città solo i politici, i matti, le forze dell’ordine, il parroco, la perpetua, i “bravi” e don Abbondio. Insomma pochini per chiamarci ancora città.

Foto di Emanuela Grasso. Le modelle sono Carlotta Scaletta e Paola Tranchida.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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