Abitare la natura, abitare l’arte: un recinto bucato tra noi e Dio

Abitare la natura, abitare l’arte: un recinto bucato tra noi e Dio

Che poi, cosa significa natura? O abitarci dentro?

Abitare la natura, abitare l’arte: un recinto bucato tra noi e DioAbitare uno spazio, costruito e modellato sulla terra. Misurare le distanze, le estensioni di se stessi verso un cosmo antico. Un tentativo di riconciliazione con una sacralità perduta. La natura selvaggia dentro di noi e la necessità di ordine imposta a quella sostanza metamorfica che ci avvolge dolcemente. La casa, leggera dentro un giardino, quasi come un oggetto meccanico e indecifrabile.
L’alba e il tramonto attraversano questo mondo, tagliando come una lama affilata lo spazio ne modellano le forme fino a sparire o forse fino a diventarne parte.

L’uomo raccoglie dentro ogni arte, infiniti ricordi o piccole storie. Le concentra tutte dentro “la casa” come per proteggerle da quella natura selvaggia che consumerebbe ogni cosa. Alchimie, carte, stoffe e ricordi. Fuori l’orizzonte, le erbe sparse come stelle, e alberi che danzano insieme al vento. Mille visuali, verso il rosso che sottolinea l’incontro tra il cielo e la terra, verso est; o l’azzurro terso e profondo che scivola tra i cespugli, di malva e lavanda. Sassi, sentieri, fantasmi. La natura che si nasconde, si mimetizza tra le cose. Dentro un atlante di profumi, di erbe aromatiche, di saggezze antiche. Antiche leggende del fuoco e della morte, dell’acqua e della vita. Storie, suggestioni di carta.

La casa è governata, governa, impone una direzione. La magnifica presenza del logos sul caos o forse del caos sul logos. Abitare significa esistere, addomesticare, estendere il proprio corpo oltre la materia intima. Abitare sopra, sotto, di lato. Sospesi tra terra e cielo. Abitare significa stabilire di collocare un recinto bucato tra noi e Dio. Abitare significa stabilire un patto tra noi e l’altro, tra noi e il mistero imperscrutabile dell’universo.

Orientiamo noi stessi, ci collochiamo sul monte, dentro una valle, ai margini di una collina.

Abitare la natura, abitare l’arte: un recinto bucato tra noi e DioSoli, come pietra sacra che guarda il sole. Noi, dentro tutto questo, confusi sulla nostra stessa consistenza. Le mani, sfiorano ogni materia: carne, metallo, argilla. Dentro ogni gesto, il profumo di un caffé di timo, i piedi scalzi, le note di una musica malinconica che accompagna ogni movimento delle mani. Il corpo danza dentro ogni anfratto di quella caverna artificiale, bianca come una perla e porosa come una spugna di mare.

Personaggi immaginari, corpi di argilla e metallo.

Legni scavati dal tempo, sormontati da forme metamorfiche e colorate. Un palinsesto di vecchi mobili rugosi e legnosi. Tattili e profumanti d’incenso. Una musica scorre dolcemente, fino a impregnare l’anima, a scuoterla da dentro.
In mezzo alla campagna, sola come un lupo della steppa. Apparsa per caso dal nulla, come le stelle delle notti d’ inverno. E dentro una luna rotonda, misterica, liturgica. Giorno e notte, alba e tramonto. Astrolabio vivente. La luna, il sole e le stelle. La terra e il cielo, gli alberi e le foglie. Un prato di fili sottili, gialli, verdi e rossi. Intorno alla casa, al nido segreto.

Forse una galleria d’arte, una mostra permanete, una collezione di opere dadaiste ed espressioniste. Macchine e figure, forme e materia. Custodite dentro uno scrigno, avvolte in un telo bianco di stoffa di lino siriano. Sullo sfondo una figura di dea distesa, titanica e immobile da secoli di storia, un profilo di terra come confine all’orizzonte.
Non è forse questo abitare? Non è forse questo esistere insieme alla natura? Non è forse questo stesso essere natura? Quella natura violentata più volte dalla nostra incoscienza, dall’indifferenza. Per ragioni sacre, per futili motivi, per arraffare la sua verginità. Abitare significa sentire.

Sentire, ascoltare, toccare, gustare il nostro trascendente materico.

Abitare la natura, abitare l’arte: un recinto bucato tra noi e DioConsapevoli di essere noi stessi natura. Una natura pensante e sentimentale. Un disegno che si consuma sull’altare di una tavola. Come Dionisio – dopo lo smembramento dei Titani – che fu collocato sull’altare per ricomporre il mondo, attraverso una sua rappresentazione simbolica.

Mimesis e Metis, sono le ragioni di questa condizione di uomini-architetti, di artisti ed eroi, di essere umani e divini, di consapevolezza e inconsapevolezza. Abitare significa collocarsi in questa dimensione quasi misterica, rituale e liturgica.

Il solo appare più irriverente, affilato e spietato. Il sole è già dentro ogni cosa e la casa lo accoglie dolcemente, teneramente in attesa di un nuovo giorno, di una nuova storia, di quella dolce malinconia che accompagna la solitudine di quell’Ulisse che continua a viaggiare oltre le colonne d’Ercole, oltre il tempo.

Una tazza di caffe, le tazze bianche di porcellana, una finestra che incornicia quella natura provvisoria che si racconta ogni giorno e dentro tutto questo c’è sempre quel senso del divino che ci appartiene da sempre. Ci rimangono i profumi, i suoni, l’orizzonte perduto.

Abitare la natura, abitare l’arte: un recinto bucato tra noi e Dio

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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