La Partecipazione vaporizzata: regole per governare davvero la città. Un politico deve essere un poeta

Trasformare lentamente o velocemente la città significa assumersi delle responsabilità.

Significa prima di tutto riconoscere la necessità della trasformazione rispetto alla semplice azione di manutenzione. Certificare, tra l’altro, che la città in quanto organismo metabolico si trasforma continuamente anche senza la nostra volontà. Si tratta di governare e indirizzare questi processi metabolici, interconnessi tra loro, nello spazio e nel tempo.

Le innovazioni tecnologiche hanno spinto o accelerato le modifiche strutturali e infrastrutturali hanno curvato le espansioni o determinato le desertificazioni. Lo spostamento di una via di comunicazione determina la nascita o la morte di un frammento di città e spesso questo dipende da fattori casuali o imponderabili. Il mercato, i desideri, le opportunità, possono cambiare improvvisamente il destino di un intero territorio. Parliamo sia della città che delle città e con esse la città coltivata (la campagna).

Ci sono molti esempi nella storia antica e contemporanea.

Per non andare troppo lontano possiamo osservare il caso Misterbianco; da luogo sacro pagano, posto più a nord in contrada Campanarazzu – convertito successivamente da un insediamento basiliano- all’attuale posizione, causata dallo spostamento dovuto alle colate laviche del 1669 che costringono gli abitanti ad occupare la direttrice di collegamento tra Catania e Paternò; Motta Sant’Anastasia perde peso e Misterbianco diventa l’attrattore principale. Commercio, ricchezza, espansione, implosione e dentro il suo territorio si concentrano innumerevoli attività di transito. Un esempio semplificato per capire come basta un evento non programmato per cambiare l’armatura del territorio. Evento naturale o politico.

Gli strumenti che oggi possiamo utilizzare per governare il territorio sono sicuramente più sofisticati, siamo nelle condizioni di prevedere attraverso modelli matematici che ci permettono di indirizzare, spostare, ricalibrare. Posizionare un centro di produzione di una multinazionale in un’area industriale sposta un indotto enorme, determina un programma di investimenti considerevoli e rimodella il paesaggio economico e produttivo con ricadute sul piano socio culturale. Sembra semplice ma è un po’ complicato.

I piani strategici, gli strumenti di pianificazione come il PUG, gli accordi urbanistici, sono funzionali per indirizzare le scelte alla luce un quadro delle conoscenze che deve essere attendibile e politicamente sostenibile (uno dei punti fragili del sistema, chi si occupa del recepimento dei dati è sempre oggettivo?). Anche questo è facile a dirsi ma difficile da attuare senza conseguenze inattese, dietro una dichiarata oggettività c’è una palese soggettività politica e culturale.
La stessa scala di intervento è una delle chiavi di lettura più importanti. Il perimetro delle indagini e degli interventi: l’edificio, il quartiere, la città, le città, il territorio e cosi via fino alla scala geografica. Scegliere l’ambito è già parte del piano, è già una porzione del progetto, è già l’idea politica che diventa evidente, è la direzione della strategia intrapresa.

Le attuali normative parlano di processi partecipativi dentro ogni strumento di pianificazione ma sulla questione non tutti sono d’accordo. La normativa è chiara ma le modalità attuative sono molto soggettive e qui la normativa lascia ampi spazi per la creatività, sarebbe una cosa giusta se non fosse che alla fine qualcuno scivola sull’ovvio o sulle bucce di banana. Ci sono dirigenti nelle amministrazioni che combattono contro i mulini a vento, sperando nel miracolo. Ci sono quelli che riescono a trovare il bandolo della matassa e portano a casa risultati fantascientifici e poi ci sono quelli che galleggiano nell’insostenibile leggerezza dell’essere, quelli che usano la parola “partecipazione” per coprire il dolce far niente o il fare conveniente.

L’idea più pratica di partecipazione è semplice.

Se fosse necessario trasformare una parte di territorio è necessario raccogliere – con una visione multi disciplinare – ogni possibile dato utile (già per fare questo è necessario essere multi-reticolari come impostazione mentale). Serve anche e contestualmente una visione politica che possa individuare gli attori della trasformazione e, a quel punto, trovare una sintesi attraverso interviste. Una visione che possa essere utile per gli specialisti, che potranno esercitare la loro arte tecnico-artistica, che successivamente sarà oggetto di verifica a valutazione collettiva (commissione, insieme di cittadini selezionati, quartiere) per l’approvazione e l’avvio dell’esecutività del progetto. Questo metodo si chiama seminario di progettazione o, come dicono gli inglesi, workshop di progettazione. Vuoi elaborare un piano strategico? Un piano urbano regolatore? L’arredo di una piazza pubblica? La progettazione di un museo? A qualunque scala se fosse necessario esercitare la partecipazione collettiva serve un piano serio e non un teatrale e malizioso coinvolgimento della popolazione ingenua.
Il Piano strategico della Città Metropolitana di Catania e quello sulla mobilità sembrano tracciare questo solco?

Troviamo, allora, come una volta, i maghi della partecipazione, quelli che gridano “venghino, signori venghino”.

Maghi, saltimbanchi, indovini e guru senza patria che vendono sogni a buon mercato. La città ha bisogno di un disegno, di un piano condiviso, di una visione politica. La città, le città, i paesaggi, il territorio. La politica deve riappropriarsi di questa arte, di questi modi, di queste liturgie, evitando le scorciatoie e i manuali fotocopiati alla rovescia. La politica non può rinunciare a deve prendere decisioni su dove, come, quando, e con chi, non delegando una tecnocrazia burocratizzata e spoetizzata piena di conflitti d’interesse ormai consolidati.

«Un politico deve essere prima di tutto un poeta, un amante perenne dei luoghi e di coloro che li abitano. Deve immaginare e riuscire a inventare concretamente una vita che faccia emergere lo spirito del luogo. Ma per riuscirci abbiamo bisogno di politici dotati di un grande carattere e di una volontà di ferro».*

*(Jean Nouvel, intervista di Stefano Bucci sulla “La Lettura” del 16 gennaio 2022, l’unica differenza è la sostituzione della parola architetto con quella di politico, mi perdonerete, ma funzionava meglio in questo caso).

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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