Catania, cinque rose e una solitudine per Jennifer: allo ‘Stabile’ il testo di Ruccello

Catania, cinque rose e una solitudine per Jennifer: allo ‘Stabile’ il testo di Ruccello

Il testo di Annibale Ruccello, ‘Le cinque rose di Jennifer’, nasce alla fine degli anni ‘70 e viene rappresentato per la prima volta nel 1980.

Anni che sembrano lontani rispetto al nostro presente, anni in cui il tema dell’omosessualità e dei travestiti cominciava ad essere vagamente trattato, prima che alcune pop star cominciassero la loro rivoluzione (Elton John, Freddie Mercury…). Ma a Napoli, dove nasce e opera l’autore, la figura del “femminiello” era stata sempre presente, nella realtà sociale e nell’immaginario comune, senza troppi pregiudizi e discriminazioni.
Quello che Ruccello ci racconta, infatti, non è il dramma esistenziale di un travestito, ma il dramma penoso della solitudine che tutti noi possiamo riconoscere, uomini, donne, creature umane bisognose di amore e condivisione.

Jennifer è una persona fragilissima, che dietro la guepiere rosa, la vestaglia col boa di struzzo, il trucco da maschera, è fatta di carne, una carne accesa di desiderio e sentimento. Il suo animo non si accontenta, non si rassegna di fronte a una verità che è evidente anche a se stessa che la racconta (Franco, che lei aspetta, non la cercherà mai), ma preferisce auto ingannarsi. Così si prepara, con meticolosa cura, si trucca, prepara la tavola, prende i bicchieri di cristallo e aspetta, aspetta che il telefono squilli per lei; il telefono, di quelli di bachelite, grandi, con la rotella per comporre i numeri e il trillo forte, squilla in realtà, anche tanto. Per una strana casualità, interessante trovata dell’autore per offrire alla protagonista sola sulla scena una serie di lontani interlocutori, la linea d Jennifer è disturbata da alcune “interferenzie” che la mettono in contatto con sconosciuti e disturbatori coi quali lei intesse confidenze e racconti che le permettono di riempire i vuoti delle giornate mentre aspetta Franco.

Per questa strana contingenza dei collegamenti telefonici alla sua porta arriva Anna, un travestito come lei, che le chiede se qualcuno ha telefonato cercandola, se per caso ci fosse stata una chiamata indirizzata a lei che, pure, aspetta. Sulla scena la figura di Anna, nell’interpretazione di Sergio Del Prete, è presente dal primo momento, come alter ego della stessa protagonista: come un’ombra si muove alle sue spalle diventando la concretizzazione della sua anima, una proiezione attraverso gesti e mimica.

Così Jennifer e Anna aspettano insieme, si fanno compagnia, bevono il caffè, si confidano raccontandosi le loro storie, storie di donne, madri, mogli tradite, matrimoni falliti. Raccontandosi una verità credibile solo per loro eppure estremamente concreta. La scena -di Lucia Imperato- in cui i due si muovono è colorata dal rosa shocking di un quadro volutamente Kitsch.
Il quartiere nel quale vivono è turbato dalla presenza di un serial killer che uccide proprio travestiti con efferatezza e lasciando la sua firma, rose rosse sui cadaveri; la radio ne dà notizia, ma Jennifer sembra non farci caso, non volerci fare caso.

Lei aspetta il suo Franco e ascolta la musica: le canzoni d’amore più struggenti di quegli anni cantate da Patty Pravo, da Mina, da Milva, da Gabriella Ferri. Nel canto di quelle voci femminili c’è sempre un grido d’amore, di desiderio, di solitudine. Vorrei che fosse amore, Se perdo te, la Bambola, Quattro vestiti, sono testi che nella scelta dell’autore, e qui del regista, costituiscono un intertesto riconoscibile, facilmente decodificabile come la colonna sonora delle anime tristi, innamorate ma sole.

Trovata di grande impatto questa del dialogo con le canzoni, questo meta racconto nel quale è facile identificarsi e, quindi, trovare un’emozione. Tanto più che la maestria di Daniele Russo –premio della Maschera del Teatro Italiano come migliore attore protagonista- nei panni di Jennifer, ci avvicina alla sua malinconia, al suo disperato desiderio che traspare da una luce delicata degli occhi che, pur dentro la maschera di un cerone pesante, di un rossetto marcato, balena verso il pubblico come a cercare consenso, condivisione.

E’ questo che manca alle creature sole: la condivisione di un abbraccio, di un amplesso, di una carezza. E’ il senso della perdita e della solitudine che angoscia Jennifer.
Napoli è il sottotesto “invadente” di questa pièce, perché Jennifer è un personaggio napoletano col suo dialetto che non si può tradurre; un dialetto con la sua musicalità così colorita, così antropologicamente definito da entrare a far parte della stessa vicenda. Ruccello la lingua di Napoli la conosceva bene, lui che era stato anche uno studioso della cultura napoletana, avendo partecipato al gruppo di ricerca sulla tradizione popolare campana facente capo a Roberto de Simone.

Mentre Jennifer continua ad aspettare, il serial killer uccide la gattina di Anna, ma lei sembra poco turbata dal racconto, seppur dettagliato, della vicina che quasi non la riguarda. Per lei il baratro dentro al quale è già risucchiata ormai si è aperto definitivamente; dopo l’ultima immedesimazione con la canzone di Mina, Vorrei che fosse amore, Jennifer prepara la sua scena finale: sarà lei il killer di se stessa con le rose sul cuore.

Daniele Russo -che avevamo già apprezzato e amato a Catania nel dramma Fronte del porto, qualche anno fa, sempre da una produzione del Teatro Bellini di Napoli, per la regia di Alessandro Gassman- sapientemente diretto da Gabriele Russo- è qui un interprete delicato, in un equilibrio difficilissimo tra caratterizzazione e scavo psicologico, non cade mai nel ridicolo, pur nella sua maschera decisamente scolpita. La Jennifer di Daniele Russo è evidentemente un travestito ma prima di tutto è un essere solo, un uomo, una donna che cerca l’amore, che è oppresso/a dalla solitudine, fino alla scelta estrema.

LE CINQUE ROSE DI JENNIFER, al Teatro Stabile di Catania. Testo di Annibale Ruccello con Daniele Russo e Sergio Del Prete. Scene Lucia Imperato, costumi Chiara Aversano,
disegno luci Salvatore Palladino,
progetto Sonoro Alessio Foglia.
Regia Gabriele Russo. Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Loredana Pitino

Riguardo l'autore Loredana Pitino

Mater, magistra, mulier. Cresciuta dentro il Teatro Bellini che considerava il suo personale parco giochi. Appassionata di teatro e cinema, un tempo aspirante attrice, affamata di tutto quello che è arte e rappresentazione perché la vita è teatro e possiamo capirla solo con la lente della finzione. Docente maieutica. Malinconica come Pessoa, sognatrice come Fellini, cinica come Flaiano. Sempre in cammino, sempre senza meta. Illuminista, prof-letaria.

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