Racconti urbani: lo spazio collettivo abbandonato, una nuova possibilità

Forse sono conosciuti meglio, come vuoti urbani. Spazi dimenticati nelle città. Residui, relitti e ghetti. Sono le piazze – qualche volta frutto di un progetto (spesso storico) e tante altre, il risultato di un’urbanizzazione recente. Agorà, foro e mercato i nomi più usati per identificarle. Un tempo erano il luogo dell’incontro, dello scambio, delle relazioni. Nella storia, hanno assunto tante forme in funzione della loro morfogenesi. Qualche volta sono persino il risultato (traumatico) di una sottrazione volumetrica dovuta a crolli, per esempio. In questi spazi si sono stratificate delle storie. Tra questi luoghi, – come fili sottili – si trovano i connettori, cioè la fitta rete di strade e vicoli che rende le piazze, o i vuoti se vi piace, accessibili.

Tranne qualche rara eccezione, oggi sono deserti. Si trovano ormai abbandonati dentro la città. Eppure erano luoghi dell’eterotopia, luoghi della socializzazione e del commercio. La domenica, ci si incontrava o per passeggiare o per giocare; all’uscita della messa, per pagare gli operai o per un comizio politico. Un caffè, la farmacia, la chiesa madre, il circolo, l’edicola e il profumo della festa. Ci si vedeva, e quello che oggi è facebook, un tempo era la piazza. Non ci sono paragoni. Se si voleva sentire qualcosa, era li, che bisognava essere e i racconti si facevano leggenda.

A poco a poco, siamo andati tutti via. Verso nuovi spazi collettivi e spesso virtuali. Con noi è andato via il farmacista, il giornalaio, il cameriere e purtroppo anche il parroco. Al centro di questi paesaggi – che sembravano le stelle di una costellazione – c’erano i personaggi, che venivano identificati con i loro soprannomi; erano spesso, uomini di ogni età, che diventavano delle vere e proprie “caricature” di se stessi e voci libere, senza freno che raccontavano e narravano le storie più irriverenti e imbarazzanti.

In alcune piazze si giocava e basta. A palla, a nascondino, a batti muro e tanto altro. Anche qui mille storie e mille leggende.

Su questi spazi, di solito si affacciavano (forse ancora oggi) le case più importanti, quella del notaio o del professore del liceo; la casa della sorella del sindaco e quella del nobile – che era sempre la più decadente.

Luoghi abbandonati, diventati non luoghi. Quasi come fossero cimiteri, in cui il silenzio assordante li rende metafisici. I vuoti più fortunati sono diventati parcheggi per le auto, macchine di metallo di tanti colori abbandonate per la notte.

Ogni piazza o slargo o vuoto era un mercato, un campetto, un teatro. Un luogo vivo e rumoroso dove irrompeva la musica del barbiere o quella della banda. Incontri, amori, sguardi, duelli, battaglie, gioie e ginocchia sbucciate sotto il sole e poi la piaggia, che tutti fa riparare nelle botteghe e nelle case, ripulendo il selciato di pietra da foglie e terra. C’erano anche gli alberi, la fontana e il gelataio. C’era la gente, piccoli, anziani, donne e uomini, tutti a fare “città”.

Forse è venuto il momento di ritornare a occuparci di vuoti urbani, di piazze e di spazi collettivi, di riconsiderare l’opportunità di occuparli, di viverli e di trasformarli. Forse anche di studiarli, da vicino a partire da chi li abita ancora. Sono i nuovi spazi dell’avventura per giovani che – nati nell’era digitale – hanno bisogno di scoprirne le potenzialità, l’umanità.

Orienting e storytelling sono due parole inglesi che spesso sono usate per descrivere nuovi scenari didattici (di cultura anglosassone) ma che potrebbero essere, solo la declinazione contemporanea, di quello che si faceva una volta nelle nostre città: giocare tra i vicoli e le piazze fino a perdersi e raccontarsi antiche storie dove i personaggi (fate, maghi ed elfi) vagavano tra i campanili e le grotte della città. Per dirla in breve, i nostri nonni e bisnonni, facevano – con i loro figli e nipoti – Orienting e storytelling, senza saperlo.

Questi luoghi oggi sono anche gli spazi dell’accoglienza in caso di sisma, sono parcheggi (ma è un peccato) e devono tornare ad essere vivi. Luoghi della sperimentazione urbana, della ricerca, del progetto. Partecipato, condiviso, nel senso che dobbiamo sentire, ascoltare capire la gente e poi decidere come intervenire.

I giovani possono essere i protagonisti di questa esperienza. Gli studenti in particolare, le scuole con la loro capacità di coinvolgere la politica, le professioni e gli imprenditori.

I luoghi della sperimentazione – le piazze e gli slarghi – sono i luoghi della trasformazione, attraverso la Land Art, la Street Art e il Video Mapping e in questo senso ricordo sempre Farm Cultural Park di Favara (ormai esperienza consolidata ed esportabile).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Qualche anno fa ho avuto la fortuna di seguire indirettamente una ricerca sulle “comunità giovanili” (di Stefania Marletta) – finanziata dall’Agenzia Giovani – che ha modificato il mio modo di guardare e di concepire il tema del recupero degli spazi abbandonati urbani, intesi come rete delle opportunità per lo sport, per la cultura e per l’ambiente, sotto forma di costellazione. Ma non meno importanti sono state le ricerche condotte – in ambito universitario con gli studenti – da Carlo Colloca, Zaira Dato, Giuseppe Guerrera, e Fausto Carmelo Nigrelli a Catania, Paternò, Favara e Siracusa, per esplorare la possibilità di trasformare piazze, slarghi e vuoti; per rigenerarli e restituirli alla fruizione collettiva.

Lo scopo – nel coinvolgere i giovani – è consolidare l’identità, rendere più fisico il rapporto tra la città e i ragazzi, esercitarli all’arte e alla bellezza attraverso la loro creatività, di questo hanno bisogno, loro e forse anche noi (più adulti).

In questo senso appare utile seguire da vicino il lavoro sperimentale, di alcune Scuole, della Città Metropolitana di Catania – che attraverso l’esperienza dell’alternanza scuola lavoro, svilupperanno ricerche sullo spazio urbano, sull’antropologia, sulla sociologia, sull’arte e sull’informazione/comunicazione, relativamente ad alcune piazze, per prefigurare la loro trasformazione con azioni di Land Art.

Credo che questa sia la scuola che vogliamo.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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