Beni culturali, le nuove sfide dell’ex Soprintendente Rosalba Panvini: “L’archeologia è la mia vita”

Beni culturali, le nuove sfide dell’ex Soprintendente Rosalba Panvini: “L’archeologia è la mia vita”

Una carriera piena, una donna determinata, completamente dedita al suo lavoro: docente, archeologa, dirigente, ricercatrice.

Si conclude per adesso l’esperienza nell’amministrazione dei Beni Culturali della Regione Sicilia, dopo aver ricoperto numerosi incarichi di responsabilità e prestigio. Il suo ultimo impegno è stato quello di guidare la Soprintendenza dei Beni Culturali e Ambientali di Catania. Più volte evocata come possibile assessore regionale del dopo Sebastiano Tusa. Una carriera ricca di gioie e dolori, delusioni e soddisfazioni.

In questa intervista del Corriere Etneo, un bilancio, a consuntivo, di una vita dedicata all’archeologia dentro una macchina amministrativa assai complessa.

Cosa si porta dietro di questo intenso periodo, cosa conserva di prezioso nella sua memoria?

«La profonda consapevolezza che il lavoro svolto, all’interno dell’amministrazione regionale, è stato utile per la crescita dell’intera comunità. Sono grata per la fiducia che è stata riposta in me e che mi ha permesso di realizzare 204 mostre per raccontare la Sicilia, la sua storia, il suo patrimonio. Le mostre sono state lo strumento educativo più potente che la Regione Sicilia ha messo in campo, oltre le tante ricerche che ho condotto. Voglio ricordare per questo: l’Etna, con le sue storie di lava, insieme all’Università di Catania e un comitato scientifico di livello internazionale; Gela e gli 800 vasi recuperati da tutto il mondo; Sikania al centro del Mediterraneo con più di 1000 reperti; le mostre realizzate a Montecitorio, Louvre, Vienna, Lubecca, Vicenza e Palermo solo per citarne alcune tra le più significative. Mi rimane la soddisfazione di aver contribuito alla ricerca e alla divulgazione della nostra storia per restituire alle future generazioni un atlante di memoria».

 

In un recente convegno internazionale – organizzato proprio da lei, sui paesaggi dell’archeologia in ambito rurale – ha concluso le relazioni con un manifesto per il futuro della ricerca archeologica. Ha evidenziato che bisogna ripartire dallo studio dell’armatura della mobilità storica per indagare i sistemi oltre il singolo sito, avendo un approccio multidisciplinare e il coraggio di cambiare i paradigmi consolidati. Un’affermazione che appare l’inizio di una nuova avventura, libera da condizionamenti culturali e proiettata verso nuovi scenari della ricerca. Può anticiparci qualcosa?

«Oggi più che mai è necessario ripartire dalla visione di rete. Uscire dallo studio del singolo sito e indagare sulle relazioni dello stesso con altre emergenze. La storia di un territorio è la storia dei suoi traffici commerciali e culturali che si concretizzano sulle vie di comunicazioni. Ma serve anche uscire dai personalismi investigativi e avviare una fase di scambio scientifico che trasformi i singoli saperi in patrimonio collettivo, accessibile e comparabile. L’impero romano ha costruito e consolidato una rete di rapporti che deve essere ancora esplorato e se si superassero le gelosie del passato tra gli studiosi si potrebbe prefigurare una nuova rete di conoscenze utili al confronto e alla ricerca. Il mio impegno sarà in questa direzione».

 

La “Carta di Catania” sembra essere l’eredità che ha voluto lasciare – alla comunità scientifica, culturale e politica di questa regione, attraverso un nuovo modo di governare i depositi archeologici – da sempre chiusi al pubblico. Un patrimonio archeologico – quello nascosto dentro casse di legno – che potrebbe cambiare la stessa storia dell’isola, attraverso lo studio e l’esposizione dei reperti nelle comunità periferiche di origine, lontani dai grandi flussi turistici. Un’opportunità di lavoro, di ricerca, di sviluppo che viene facilitata dalla sua applicazione. Quali scenari si possono prefigurare per le piccole città se attivassero nuovi spazi espositivi?

«Le opportunità per le comunità sono straordinarie e inaspettate. Prima di tutto voglio ringraziare per l’appoggio e il sostegno il Presidente Nello Musumeci e l’Assessore Alberto Samonà che hanno condiviso l’impegno svolto dal gruppo di lavoro che ha sviluppato questo nuovo quadro normativo, unico in Italia. Il merito è da condividere anche con Nunzio Condorelli Caff, Mario Bevaqua e Fabrizio Nicoletti che hanno contribuito fattivamente alla stesura del testo adottato. La questione a cui abbiamo cercato di dare una risposta è il fatto che circa l’80% del patrimonio sepolto nei depositi dei musei o delle Soprintendenze non è nemmeno inventariato. Questo significa che rischia di essere persino “trafugato” senza che nessuno lo possa scoprire. Bisognava individuare una strategia per trasformare questa criticità in opportunità e la Carta di Catania è una possibile risposta.

In questo modo, banche, scuole, alberghi, comuni, parrocchie e associazioni, se garantissero la massima sicurezza dei reperti – dentro le vetrine con sistemi di allarme e videosorveglianza – potrebbero esporre il patrimonio archeologico e storico artistico sepolto da anni. Ma non solo, la Carta di Catania prevede il riutilizzo del patrimonio sottoutilizzato, per avviare scambi e prestiti con altri musei nazionali e internazionali, aumentando e qualificando l’offerta museografica, generando nuovi posti di lavoro per archeologi, antropologi, architetti, storici dell’arte e restauratori e di tutto l’indotto della filiera culturale e turistica. Immaginate cosa significherebbe per le scuole, la possibilità di esporre dentro i loro locali questo patrimonio, per mettere nelle condizioni i docenti di spiegare ai ragaazzi la storia dell’arte direttamente con i reperti veri?

Nella carta è espressamente previsto che qualora un albergatore, una banca, un ente, ottenesse l concessione di beni archeologici o storici artistici, ecc., sarà obbligato ad assumere uno specialista delle predette discipline, ossia un conservatore per poter far fruire i beni esposti. Dunque i beni non verrebbero concessi tout court ai predetti soggetti ma questi, assumendo, creerebbero nuovi posti di lavoro. Il privato in cambio di queste concessioni potrebbe sostenere le spese di restauro e di ricerca deducibili dalle tasse. Immagino i comuni che potranno – attrezzando i loro spazi museali – realizzare percorsi espositivi, con reperti che provengono anche dal loro territorio, che ritornando dopo anni di oblio, potrebbero generare un nuovo modello di sviluppo economico sostenibile».

 

Le sue prime dichiarazioni non lasciano dubbi. Il suo impegno per l’archeologia che non finisce qui. Ora appare chiaro che insegnare e ricercare sono i suoi territori, forse quelli di sempre. Con la determinazione che l’ha contraddistinta ci aspettiamo nuovi progetti e nuove sfide, ci può anticipare qualcosa?

«Il mio impegno futuro è rivolto all’attività di insegnamento, di ricerca sul campo e di divulgazione. Sto già lavorando ad un convegno sulla preistoria e la protostoria in Sicilia come crocevia del Mediterraneo, con un comitato scientifico di eccellenza e a un convegno sulla ceramica dalla preistoria all’età moderna con Alfio Nicotra, oltre alla direzione di cinque scavi e alcune novità con l’Archeoclub d’Italia che presto ufficializzeremo. In pratica non mi sto fermando nemmeno per un istante ma sono felice di questo. L’archeologia è la mia vita».

 

Il mestiere dell’archeologo è in una fase di metamorfosi. Innovazione digitale, indagini non distruttive, accessibilità delle fonti e scambio di documenti all’interno della comunità scientifica. Visione multidisciplinare e sistemica, oltre alla necessità di comunicare alla collettività. Lei, insieme a Fabrizio Nicoletti, ha recentemente pubblicato un volume sull’”archeologia in Sicilia nel secondo dopoguerra”. Come immagina questo mestiere nel prossimo futuro e cosa si può ancora fare per far rientrare – all’interno degli spazi espositivi pubblici – i tanti reperti archeologici dispersi nelle collezioni private, nascosti per paura o per incuria?

«L’archeologo è uno dei mestieri più belli del mondo, se tornassi indietro rifarei la stessa scelta. Questo vorrei dire ai giovani – che spesso incontro negli scavi – quando si scoraggiano. Il futuro è tutto nell’uso delle nuove tecnologie, delle nuove tecniche di diagnostica, compreso l’uso dei droni e dell’informatizzazione dei dati che ci permette di condividere più facilmente le ricerche con tanti studiosi. Ma questo mestiere non può considerarsi più come isolato. Oggi l’archeologo deve lavorare fianco a fianco con l’antropologo, il geologo, lo storico e l’architetto. In pratica serve ampliare gli orizzonti disciplinari e le innovazioni digitali sono di grande aiuto. Per restituire alla collettività i reperti nascosti delle collezioni private formatesi illegalmente serve una nuova normativa, ma serve uno studio giuridico ad hoc. Ma prima di tutto bisogna comprenderne la provenienza”. Qualora si riuscisse in questo obiettivo sarebbe un successo per lo stato, per la comunità scientifica e per la cultura in genere. Bisogna lavorarci sul piano parlamentare».

 

Carta di Catania

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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